Specificità corticale per ricordare quando si presta attenzione
GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XV – 10 marzo 2018.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di
studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Intuitivamente ciascuno di noi
ritiene che prestare o non prestare attenzione a quanto si percepisce, ai fini
della memorizzazione, conti molto. L’esperienza costante, fin dall’infanzia,
nella relazione educativa con gli adulti, nella scuola e nei giochi, è
caratterizzata da un uso cosciente dell’attenzione allo scopo di ritenere,
fissare, ricordare, rammentare. Quel tipo di attenzione selettiva che chiamiamo
“concentrazione” è, fin dalla scuola elementare, uno strumento per la forma di
memoria esplicita o dichiarativa che in neuropsicologia si chiama “memoria
semantica” e che costituisce la base per la ritenzione di tutte le nozioni
necessarie ad avere successo scolastico. Questo paradigma influenza sicuramente
il nostro giudizio, ma anche la quotidiana esperienza di fissare o meno
qualcosa che si è percepito, in dipendenza del fatto che si sia prestata attenzione
in condizioni di serenità o che si sia stati negligenti perché concentrati sui
propri pensieri o distratti da qualche altra ragione, contribuisce a confermare
la convinzione di una differenza.
Ma, se tale differenza esiste,
dovrà pur essere riconoscibile in una differente base neurale. Eppure, non si
sente mai parlare di reti neuroniche, aree o schemi di connessione diversi per
la rappresentazione di uno stimolo al quale si è prestata attenzione, rispetto
ad un altro al quale non si è rivolta intenzionalmente la cognizione.
Una comunicazione breve, online dal 5 marzo e di prossima
pubblicazione sull’edizione cartacea di Nature
Neuroscience, è stata presentata da Thomas B. Christophel e colleghi su questo argomento. Lo studio
condotto da questi ricercatori ha valutato una tesi sostenuta da molti, ossia
che le informazioni temporaneamente ritenute nella memoria di funzionamento, o working memory, se
non vi si presta la dovuta attenzione, non lascino una traccia di attività
neuronica. Quanto emerso dallo studio, non solo prova esattamente il contrario,
ma fornisce anche un’interessante nuova nozione sul criterio seguito dai
processi corticali in questi casi.
(Christophel T. B., et al., Cortical specialization for attended versus unattended working memory. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-018-0094-4, Mar 5, 2018).
La provenienza
degli autori è la seguente: Bernstein Center for Computational Neuroscience
and Berlin Center for Advanced Neuroimaging and Clinic for Neurology, Free
University of Berlin, Humboldt University of Berlin and Berlin Institute of
Health, Berlin (Germania); Berlin School of Mind and Brain, Humboldt
University, Berlin (Germania); Cluster of Excellence NeuroCure,
Charité University of Medicine, Freie
University of Berlin, Humboldt University of Berlin and Berlin Institute of
Health, Berlin (Germania); Department of Psychology, Humboldt University of
Berlin, Berlin (Germania); SFB 940 Volition and Cognitive Control, Technical
University of Dresden, Dresden (Germania).
Questo lavoro è di estremo
interesse per il dibattito sulla natura stessa della working memory, che Thomas Christophel
e colleghi considerano indipendente dall’attenzione, contro una tesi sostenuta
da numerosi studiosi di campi diversi delle neuroscienze. Ad esempio, Joaquin Fuster, il massimo esperto di corteccia prefrontale,
sostiene che in termini sia neurali che fenomenici la working memory può essere meglio compresa come “attention focused on an internal representation”[1]. In
altri termini, un processo di attenzione focalizzato sulla traccia della
percezione, organizzata in struttura – aggiungo io – con le memorie precedenti
così da formare quella che convenzionalmente si definisce “rappresentazione
interna” o “rappresentazione cerebrale”.
Prima di approfondire il
concetto della memoria di funzionamento, indicata in italiano spesso con la
traduzione inesatta di “memoria di lavoro”, mi piace ricordare quanto lo stesso
Fuster riferisce circa la propria posizione riguardo
a questo concetto, nella prefazione della quarta edizione della sua celebre
monografia sulla corteccia prefrontale: “La scoperta di cellule della memoria nella corteccia prefrontale della scimmia fu
importante nell’ispirare la prima edizione di questo libro. Comunque, prima e
dopo la sua pubblicazione, molti erano soliti chiedermi – con malcelata
perplessità - quale è esattamente la funzione di quelle cellule? All’inizio le
ho chiamate ‘memoria a breve termine’, poi ‘memoria temporanea’, poi ‘memoria
provvisoria’, poi ‘memoria attiva’, poi ‘memoria a breve termine attiva’. Nessuna
di queste caratterizzazioni fu ampiamente accettata per ciò che molti di noi
stavano osservando nella scimmia. Nel frattempo, come se provassi a fermare con
le mani una marea montante, io resistevo strenuamente al termine ‘working memory’, che ritenevo
essere alieno dal fenomeno. Dopo la terza edizione, tuttavia, mi arresi. Il
termine era stato quasi universalmente adottato per la funzione sottostante la
scarica persistente di cellule prefrontali durante il mantenimento della
memoria per un’azione”[2]. Più
avanti, poi, Fuster precisa che, sebbene il ruolo di
queste cellule nell’organizzazione temporale dell’azione sia oggi compreso
molto meglio di quanto non lo fosse al tempo della prima edizione, il concetto
relativo alla loro funzione non è mutato nella sostanza: è cambiato solo il
nome.
La definizione working memory si adoperava già in psicologia cognitiva, ma con
una differente accezione, quando fu impiegata per la prima volta nell’ambito
delle neuroscienze sperimentali da Pribram per
caratterizzare una forma di memoria temporanea ed operativa per necessità
provvisorie. Atkinson e Shiffrin
(1968), autori di uno storico modello modale di memoria in neuropsicologia, la
impiegarono per designare uno stato dinamico della memoria di breve durata. Alan
Baddeley (1986) ha definito la working memory come un magazzino di memoria
temporanea per le informazioni necessarie ad eseguire un compito o risolvere un
problema in un breve intervallo temporale, e l’ha posta al centro di un
ipotetico “sistema esecutivo centrale”, considerandola parte del sistema di
supervisione dell’attenzione. Baddeley ha
identificato il deficit di questa memoria con un disturbo frequente nei
pazienti affetti da patologie, danni o lesioni del lobo frontale, ossia la
“sindrome dis-esecutiva”, secondo la sua definizione[3]. In
seguito ha affermato che la memoria temporanea di funzionamento e l’attenzione,
non solo sono inseparabili, ma in parte coincidono[4].
Gli autori dello studio qui
recensito affermano che gli elementi ritenuti nella working memory, in dipendenza del rilievo
comportamentale correntemente attribuito dal soggetto, possono meritare
l’attenzione oppure no. È stato suggerito che i contenuti ai quali non sia
stata prestata attenzione potrebbero essere ritenuti in una forma silente, in
termini di attività. Invece, Thomas Christophel e
colleghi hanno dimostrato che la codificazione di contenuti privi di rilevanza attentiva rivela una divisione del lavoro cerebrale.
Mentre la corteccia visiva ritiene soltanto gli elementi fissati con
attenzione, le aree della regione
intraparietale e i campi visivi del
lobo frontale codificano la rappresentazione sia degli elementi trascurati
sia di quelli rilevati con interesse attentivo.
A questa comunicazione breve
di Thomas Christophel e colleghi si spera possano
seguire lavori su campioni estesi e significativi, che forniscano ulteriori
elementi e maggiore certezza circa il valore effettivo dei correlati
registrati.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E
NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Joaquin M. Fuster,
The Prefrontal Cortex (IV edition), p.
349, Elsevier AP, 2008.
[2] Joaquin M. Fuster, op. cit., pp. XI-XII (nella prefazione).
[3] Cfr. Alan Baddeley, Human Memory. Theory and Practice. Hove,
Lawrence Erlbaum Associates Ltd., 1990.
[4] Cfr. Alan Baddeley, Working
memory or working attention? In Alan
D. Baddeley & L. Weiskrantz (eds)
Attention: Selection, Awareness and control. A Tribute to Donald Broadbent, pp.
152-170, Claredon Press, Oxford 1993.